a
Avezzano 2013
Taccone Vito -
Inaugurazione della Statua ricordo
Il ciclismo italiano ha
sempre avuto in Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Toscana le sue
fucine inesauribili di campioni. Nonostante ciò, di tanto in tanto
anche il piccolo Abruzzo, terra di poeti e pastori, di mari
accoglienti e monti innevati, sforna qualche grande ciclista. Negli
anni ’60, epoca in cui i grandi giri erano appannaggio di Anquetil,
Gimondi e Merckx, un giovane abruzzese incantava i tifosi con i suoi
numeri in salita. Costui era Vito Taccone. Nato ad Avezzano, nel
cuore della montuosa Marsica, l’8 maggio 1940, questo ragazzo da
giovane faceva il garzone del fornaio del paese, effettuando le
consegne in bicicletta, su e giù per il Monte Salviano. Passato
professionista ad appena 21 anni con la gloriosa Atala, squadra
dall’imponente passato. Da neoprofessionista partecipa al Giro
d’Italia e gli bastano solo dieci tappe per far comprendere che tipo
di corridore egli sia.. E' il 30 maggio, si arriva a Potenza:
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lo sconosciuto abruzzese,
in compagnia di Junkermann, fa il vuoto sulla salita lucana e batte
allo sprint il tenace scalatore tedesco. Vince con una dedica
speciale per il povero Alessandro Fantini, anche lui abruzzese di
Fossacesia, deceduto poche settimane prima a Treviri a causa di una
rovinosa caduta mentre disputava lo sprint per quella tappa del Giro
di Germania. Taccone chiude la corsa rosa al quindicesimo posto,
conquistando anche l’ambita maglia verde di miglior scalatore, ma la
sua stagione non è certo finita lì. Due tappe e la classifica finale
alla Tre Giorni del Sud
confermano il suo valore ogni volta che la strada sale e sono il
preambolo a quello che sarà uno dei più grandi capolavori della sua
carriera: il Giro di Lombardia. Quell’anno la corsa delle foglie
morte affronta il durissimo Muro di Sormano, nei pressi di Asso:
sono 1700 metri al 17%, con punte anche al 25%, affrontato subito
dopo il leggendario Ghisallo. Una salita dove si sente veramente il
battito cardiaco rimbombare nelle tempie. Chi meglio di Vito Taccone
può domarla? Nonostante un lieve distacco accusato in vetta, è
proprio il giovane abruzzese a trionfare, con una grande rimonta nel
finale, sul traguardo dello stadio Senigallia di Como, precedendo
Massignan e Fontana. L’apoteosi di una stagione da incorniciare. La
leggenda del “Camoscio d’Abruzzo”. I grandi successi della prima
stagione da professionista fanno in modo che Taccone sia tra i
favoriti al via del quarantacinquesimo Giro d’Italia, nel 1962. La
corsa rosa regala parecchi piazzamenti all’abruzzese (secondo
all’Aprica e a Valdostane, terzo a Panicagliora) senza però dargli
la gioia di un successo parziale: a ciò, si aggiunge l’amarezza per
il quarto posto nella classifica finale a pochi secondi dal terzo
classificato Nino Defilippis. L’unico acuto di quella stagione un po’
sotto le aspettative è il Giro del Piemonte, che conferma come
Taccone possa ambire non solo alle frazioni alpine dei grandi giri,
ma anche alle corse in linea dal percorso vallonato e selettivo.
La dea bendata è però
intenzionato a ripagare l’abruzzese delle delusioni della
stagione precedente. Nel 1963 veste la maglia Lygie e punta
nuovamente sul Giro d’Italia. Il successo in primavera al Giro
di Toscana dimostra la sua crescente condizione in vista della
corsa rosa. Taccone sa che le sue doti non proprio eccelse di
cronoman gli proibiranno di vincere una grande corsa a tappe, ma
è anche ben conscio delle sue doti fuori dal comune ogni volta
che la strada si arrampica. Si fa già a vedere nelle prime tappe,
con un secondo posto a Pescara per il “suo” pubblico al termine
di una lunga fuga fra Rionero Sannitico e Roccaraso. Ma è verso
la metà di quella corsa che si scatena in tutta la sua forza.
Asti, il santuario di Oropa, Leukerbad e Saint Vincent: quattro
tappe consecutive, in cui Taccone dimostra la sua incredibile
facilità di pedalata in salita e una sorprendente abilità nel
vincere volate di gruppo ristrette (chiedere ad Adorni e
Balmamion, più volte piazzati in questi quattro giorni). Nasce
così la leggenda del Camoscio d’Abruzzo: proprio come il caprino
caratteristico di Majella e Gran Sasso, Taccone si arrampica con
leggerezza sulle montagne. Più la strada si inerpica, più il
buon Vito fa la differenza: uno scalatore puro, di quelli che
infiammano le folle. Anche la terzultima tappa, con arrivo a
Moena, lo vede trionfare, suggellando così un’incredibile
cinquina che però non gli vale più del sesto posto in classifica
finale, ad oltre dieci minuti dal vincitore Franco Balmamion,
essenzialmente a causa di una brutta caduta nella prima tappa
che non gli impedisce tuttavia di aggiudicarsi la maglia verde
di miglior scalatore. Leggendari, in quell’anno magico, i suoi
duetti ricchi di sarcasmo con Sergio Zavoli, conduttore del
celeberrimo “Processo alla Tappa”. Perché Vito, ragazzo
cresciuto tra mille difficoltà e mille sacrifici nel cuore
dell’Abruzzo, è così, sanguigno, focoso e istintivo come pochi.
Entra di diritto nella storia anche della televisione italiana
con questa frase: “Devo essere lupo perché ho fame, la mia
famiglia ha sempre avuto fame. Ogni vittoria è una rapina”. Nel
1965 la vittoria alla Milano-Torino di marzo promette bene, ma
al Giro d’Italia chiude per ben quattro volte al secondo posto
(in realtà la tappa di Maratea lo vede vincitore, ma qualche
scorrettezza di troppo in volata, tanto per cambiare, lo fa
retrocedere al secondo posto).
Gli ultimi acuti di una carriera breve ma fenomenale al tempo
stesso arrivano nel 1966, in maglia Vittadello, a fianco di
quello che diventerà un guru del ciclismo nostrano come Franco
Cribiori. Una fucilata al Giro di Svizzera fa da preambolo al
Giro d’Italia. Prima tappa, volata a Diano Marina e vittoria del
Camoscio davanti a Mealli e Zandegù. Per la prima e unica volta,
Taccone veste la tanto ambita maglia rosa, ma le soddisfazioni
di quel Giro terminano lì. La stagione viene completata dal
successo al Trofeo Matteotti nel suo Abruzzo.
Dal 1967 al 1969 veste la maglia Germanvox e nel 1970 quella
della Cosatto-Marsicano. Sfortunatamente, il Camoscio ha alle
spalle i propri anni migliori e coglie l’ultimo trionfo al
circuito di Chieti nel 1967, anno in cui è secondo al campionato
italiano. Per il resto, tanti secondi e terzi posti nelle tappe
del Giro d’Italia e in varie classiche del calendario nazionale,
ma non ha più la brillantezza necessaria per fare la differenza
e lasciare indietro i rivali.
I guai giudiziari degli ultimi anni
Lasciato l’agonismo,
Taccone intraprende varie attività imprenditoriali ma torna spesso
alla ribalta non tanto per i suoi successi in campo aziendale,
quanto per le vicende giudiziarie. Nel 1973 viene denunciato per una
rissa ad Avezzano causata da “futili motivi” in cui sono coinvolte
altre 10 persone; verrà condannato a 3 anni e mezzo ma otterrà
l’amnistia nel 1982. Altri guai giungono nel 1985, quando finisce in
manette per aver partecipato ad un raid punitivo contro un hotel
abruzzese per una vicenda di bische clandestine e assegni a vuoto.
Grandissimo tifoso del corregionale Danilo Di Luca, Taccone riappare
sulla cronaca giudiziaria nel 2007 in quanto accusato di
associazione per delinquere finalizzata al commercio di capi di
abbigliamento contraffatti o provenienti da furti e ricettazione.
Lui, con quella pancia un po’ esagerata e quei capelli “bianchi come
la neve della Majella”, si proclama innocente e compie gesti
clamorosi come ammanettarsi davanti al Tribunale. Forse a causa
dello stress procurato dalle vicende giudiziarie, le sue condizioni
di salute peggiorano rapidamente: il 15 ottobre di quello stesso
2007, a causa di un infarto, finisce l’epopea del
Camoscio d’Abruzzo.
Battagliero in corsa e personaggio unico fuori, Taccone è passato
alla storia come uno dei migliori interpreti della grande tradizione
italiana di scalatori, quegli atleti agili e scattanti che
incendiano la folla ad ogni scatto, veri idoli degli appassionati
perché affrontano con leggerezza impressionante quelle montagne che
i “comuni mortali” riescono a scalare solo con enorme fatica. In
Abruzzo viene tuttora ricordato come un atleta simbolo del popolo:
figlio di contadini, con le sue vittorie e la sua spontaneità nel
parlare ha rappresentato il riscatto per quella terra magnifica,
devastata dagli orrori della guerra e della povertà. I suoi
concittadini hanno dedicato, al ciclista scomparso nel 2007, una
statua in bronzo. Avezzano è una città che porta nel cuore, e ha
lasciato una sua interpretazione della statua: Vito Taccone, nudo e
scalzo, verso la meta del Salviano, si spoglia della vita terrena e
corre verso il cielo.
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